La
“Baracca dell’amore”
Prima che io nascessi (ma anche per tanto tempo dopo) i miei
genitori non navigavano certo nell’oro.
Tutti e due si davano un gran da fare
per “sopravvivere” e lo facevano nel modo che da sempre gli era stato insegnato
e cioè: ”onestamente”.
Mia madre lavorava al servizio di una benestante famiglia al centro
di Roma … mio padre aveva trovato lavoro come manovale presso un cantiere
edile nel quartiere Tuscolano dove, nel
dopoguerra, i palazzi crescevano come funghi.
Quando a casa arrivavano le “paghe” i due si sedevano al tavolo in
cucina (avevano soltanto quello) e iniziavano a suddividere i soldi.
"Questi per l’affitto… questi per la bolletta della “luce” che questo mese arriva,
questi per i biglietti del tram …" Insomma,
da quel poco che rimaneva dovevano farci
uscire fuori tutto il resto, ma si sa che l’amore compie miracoli e di una cosa
io sono veramente sicura…loro si amavano.
Ottobre 1957. Mio padre tornò a casa
euforico, la bicicletta si “autopedalava”… gli era stato offerto il
lavoro di guardiano notturno al cantiere … di giorno avrebbe continuato con la
manovalanza e di notte avrebbe potuto usufruire di quella piccola baracca tirata
su alla meno peggio con vecchie palanche una porta di ferro talmente
riverniciata che ormai non si capiva più quale fosse il suo colore originale e a
fare da tetto vecchi ondulati di eternit.
All’interno un filo bianco e piatto
(la piattina) portava la corrente ad una lampadina che per spegnerla o
accenderla bisognava “girarla” con la mano, un piccolo lavandino. Per dormire una vecchia
rete a nido d’ape e un materasso ad una sola
piazza. Per cucinare e per scaldarsi, una vecchia stufa economica … di quelle
con gli anelli. Certo ora era ottobre,
ma sai che caldo durante l’estate, quando per cucinarsi un piatto di
maccheroni avrebbe dovuto accendere l’intera stufa? Al momento era quasi inverno…
una soluzione l’avrebbe trovata.
Il lavoro di guardiano notturno consisteva nel dormire con un occhio
ed un orecchio solo . Tutto fattibile per un ragazzo che aveva sempre avuto una
gran voglia di lavorare e che non aveva compiuto
ancora i suoi 25 anni.
“5 mila lire…Ada ma lo capisci?
L’intero affitto per un mese di questo appartamento…cinquemilalire tonde
tonde” non riusciva a rimanere nella pelle mio padre quella sera davanti a quel
solito piatto di spaghetti conditi con un sugo semplice ma che quella sera era
la cosa più buona che avesse mai mangiato.
“Certo che lo capisco“ rispose mia madre mordendosi il labbro
inferiore a sinistra (un’abitudine che
le è rimasta per sempre… lo faceva quando era particolarmente nervosa. ) “Ma tu invece
lo capisci che io rimango a dormire da sola qui e che ho paura a dormire da
sola?”
I grandi occhi inondati di lacrime.
Ada aveva 22 anni, ventidue anni colmi di cose, quasi tutte brutte…
fame, guerra, freddo, privazioni di ogni
genere. Eppure quando lei raccontava qualcosa di quel passato così pesante,
riusciva a trovarci sempre il lato bello…vestiti ricavati da vecchi sacchi di
canapa a cui mia nonna faceva dei buchi
per le braccia e le teste… per figli maschi e femmine… l’abito era uguale per
tutti. La grande nevicata che rendeva ancora più duro un inverno già tanto
difficoltoso, per lei e i suoi fratelli diventò il gioco “delle fotografie”. Si
tuffavano nella neve intonsa ed il calco che rimaneva era la loro “fotografia”.
All’età di sette anni la mandarono a pascolare una pecora che lei aveva ribattezzato
“Corallina”. Un giorno mia madre era stanca e decise di dormire un po’ al
fresco di una pianta, per paura che Corallina scappasse, le annodò una corda al
collo e poi la legò ad un albero…forse la legò un po’ troppo stretta perché
quando si svegliò, Corallina era bella che andata. Botte sicure e botte furono, tantissime, ma lei a ricordarlo ci rideva e imitando la faccia di Corallina
diceva: “Povera pecorella”.
Moltissimi anni dopo sfogliavo una rivista che riportava la foto di
alcuni bambini in un campo di concentramento, tutti con lo stesso
straccio addosso e con la testa rasata, mia madre mi tolse delicatamente il
giornale dalle mani e mi disse sorridendo “questi
siamo io e i miei fratelli quando eravamo piccoli, tua nonna puntualmente ci
rasava la testa a zero per paura che ci prendessimo i pidocchi!!!”
Rideva anche quando raccontava che, promossa in terza elementare, al
prezzo di ceci sotto le ginocchia e terribili bacchettate sulle mani, corse da
mio nonno, comunista fino al midollo, per mostrargli la pagella e lui non
appena vide lo stemma fascista stampato su questa la stracciò in mille pezzi e
lei dovette ripetere la seconda elementare.
“Non ci dormo da sola” ripeté mia madre.
“Andiamo a letto” disse mio padre “una soluzione la troveremo”.
Trovarono la soluzione.
Nel tardo pomeriggio mia madre tornava dal lavoro, riordinava la
casa e nel frattempo preparava qualcosa da mangiare, poi incartava tutto e
verso le 19 prendeva il tram per andare al cantiere dove mio padre l’aspettava
in trepida attesa; insieme consumavano la cena, mia madre lavava quelle poche
cose nel piccolo lavandino e poi andavano a farsi una passeggiata intorno al
cantiere dove già molte case erano abitate. Qualche volta si concedevano un
cono gelato… piccolo però!!! Dopo la passeggiata se ne tornavano nella baracca
e stretti l’uno all’altro dormivano nella rete a nido d’ape su un materasso ad
una sola piazza.
Arrivò novembre e arrivò il freddo… le passeggiate dopo cena
cessarono, si andava a dormire prima e fu proprio in una notte di quelle,
sicuramente la più bella, la più profumata, la più magica, che mio padre e mia
madre si abbracciarono un po’ di più. Fu proprio in quella notte che la
sottoscritta fu “concepita”!!!